L’ignoto

La nuova frontiera dell’esplorazione ce l’abbiamo letteralmente sotto il naso, anzi: dentro il naso. In un tampone nasale il 20% del materiale genetico è sconosciuto, si chiama materiale organico oscuro. Potrebbe trattarsi di una nuova forma di vita, come lo furono i virus un secolo fa (anche se non tutti considerano i virus una “forma di vita”, così come accade per i freelance…)

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la caduta

La leggenda vuole che dalla torre di Pisa Galileo faceva cadere delle masse (i gravi) per studiarne il moto. Newton poi indagò sulle forze in gioco. Il resto lo trovate nei libri di fisica dove da ragazzino feci questa scoperta: una palla di ferro e una piuma in caduta libera toccano terra nello stesso momento perché soggetti alla stessa accelerazione gravitazionale (quindi soggetti a una forza di gravitazione diversa e proporzionale alle rispettive masse). Nella realtà non succede perché c’è l’aria e l’aria oppone resistenza al moto, le piume in questo sono troppo più sfortunate della palla di ferro e vengono frenate. Galileo non aveva modo di esperire ne creare il vuoto ma ci arrivò lo stesso. Questo la dice lunga sul senso dell’osservazione e quanto osservare non sia semplicemente registrare dei dati. Eccone la prova:

Mi interessa però ribadire il senso dello stupore e della meraviglia che secondo me fa intimamente parte della scienza. Interessante sarebbe riflettere su questo scarto che sembra essere costante tra quello che consideriamo normale, ovvio, plausibile e quindi reale e poi la realtà quando viene indagata con strumenti che di fatto  superano i limiti stessi di chi li ha concepiti. Mi sembra sembra pazzesco.

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il/le folle

Una metafora non esplicitata, a vostra disposizione, in attesa di essere istanziata…

ps: è uno studio/demo di un simulatore di folle per un noto software 3d

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mettila da parte

Una volta sentii Philippe Daverio dire che l’arte per essere tale deve essere ambigua. A volte penso che sia una frase gigiona, ad effetto, forse buttata li. Altre volte mi pare un ottimo punto da mettere a fuoco in quello che mi si presenta davanti come “artistico”. Ma quell’aggettivo “ambiguo” è -nella frase di Daverio- dannatamente autoreferente. Che vuol dire ambiguo?

Sulla prima pagina di un libro invece trovai questo: “l’arte è la scienza fatta carne”. Questa mi ha folgorato, il collegamento repentino tra la scienza e la carne. Ma anche qui quel “carne” è una metafora che si presta a significati vaghi e troppo vasti.

Forse non esiste l’Arte, ci piacerebbe poter identificarne l’eidos universale (perché siamo spesso consumati dalla voglia di categorizzare: questo si, questo no…). Esistono le arti e di ognuna possiamo goderne lo specifico (anche i limiti!) e l’unicità dei linguaggi e degli strumenti.

Ora non venitemi a dire che questo cortometraggio di animazione non vi manda in risonanza tutte queste categorie di pensiero e tante altre.

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Kalos

Dato che l’estate è -credo per molti- stagione di profonde malinconie mi sembrava opportuno proporre qualcosa di nitidamente poetico. E’ un estratto da uno spettacolo di omaggio a Pina Bausch.

 

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Fatto davverodavverico

Tutti in Italia sanno cos’è il Limo e a cosa serve. Non c’è nemmeno bisogno che lo riscriva. Potete fare un test, chiedete in giro, CHIUNQUE sarà in grado di rispondervi. E’ l’unica nozione che la scuola italiana è riuscita a inculcare a tutti. Bisognerebbe capirne il perché e il come per traslare ed estendere questa virtuosa “sindrome del limo” nei vari campi del sapere.

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Eredi

In inglese si dice “cultural heritage” cioè eredità, non beni o patrimonio culturale. Il senso cambia e assieme ad esso il rapporto con quello che ricevi e che non dai per scontato.

Dice Salvatore Settis…io vorrei fare un discorso più generale: il nostro patrimonio deve servire primariamente a noi, primariamente alla nostra memoria storica. Se abbiamo capito questo, allora possiamo anche affrontare la tematica del riuso e aprire un ristorante nel castello. Se consideriamo il castello un oggetto che non serve a nulla, se non ad aprirci un ristorante, meglio abbatterlo 

Con un copia incolla prendo Philippe Daverio che incalza:”…Potremmo anche decidere di buttare via tutto perché siamo un Paese di cialtroni quindi questo passato ci supera è troppo importante, non siamo in grado, via via buttiamola via, lo volevano i futuristi. C’è una dichiarazione di Marinetti, ma in questo senso: l’Italia quando diventa moderna si accorge che non ce la fa e Marinetti dice buttiamola via questa roba, questo ciarpame. Invece oggi ci siamo accorti che il ciarpame ha un suo valore. Però non sappiamo ancora a che cosa serve, non sappiamo se serve a fare turismo, non sappiamo se serve a educar la gente, non sappiamo se serve a generare l’identità nazionale, è tutto un pasticcio che si chiama beni culturali” e anche “…Io non ho mai creduto che la cultura faccia sviluppo, io ho sempre pensato che la cultura generi intelligenze superiori, sono due letture completamente diverse. C’è quella vecchia scritta un po’ massonica sul teatro di Palermo “vanno delle scene il diletto ove non miri a preparar l’avvenire”. Io credo che la cultura serva alla formazione, all’identità, alla forza psicologica, a tante cose, a fare altra cultura per esempio, alla creatività. Adesso stiamo usando il passato sperando di vendere due panini in più. E’ un po’ miserabile, ecco

Questo mi sembra un ottimo preambolo per invitarvi, appena avete un’oretta libera del vostro tempo, a guardarvi questo documentario (in italiano) -che per un po’ rimarrà gratuito, affrettatevi!- The Venice Syndrome 

Perchè la bellezza e il suo sfruttamento -da parte di pochi- pone sempre tante domande. Purtroppo non esiste in italia una elite in grado di dare risposte e immettere nella classe dirigente italiana persone -non solo capaci- in grado di impedire che il nostro paese non si riduca ad una grossa Disneyland. Abbiamo smesso di produrre bellezza -e non la finiamo di fare speculazione edilizia- e adesso speriamo di campare vendendo qualche pizza in più a turisti in calzoncini.

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Maurice Tillet

Scopro, grazie all’amico Antonio, l’esistenza di questo personaggio singolare: Maurice Tillet. Affetto da una malattia che interferisce con l’ormone dello sviluppo -acromegalia- passa dall’essere un bel bambino -soprannominato l’angelo- all’essere un mostro dalle proporzioni marcatamente alterate. La sua vita e la sua persona non mancano di essere altrettanto singolari. Diventa un famoso lottatore -soprannominato in maniera beffarda “l’angelo francese”- ma è anche poeta, attore in erba; tutti lo raccontano come un uomo estremamente mite e gentile oltre che capace di parlare moltissime lingue, qui troverete soddisfatta ogni ulteriore curiosità.  Sono troppo ignorante per poter affrontare una figura così importante come quella del mostro, mi limiterò a riportare alcuni immediati collegamenti. Queste due suggestive foto  di Irving Penn che ritraggono Maurice assieme a Dorian Leigh (considerata la mamma di tutte le super-modelle)

Non riesco a non sentire in queste foto alcuni fatti salienti riguardo l’esser maschio.

Il secondo collegamento è un racconto di Borges (che potrebbe facilmente farvi innamorare di Borges per sempre) presente nella raccolta “L’Aleph”: La casa di Asterione. All’ultima riga capirete tutto e lo sforzo della disagevole lettura a monitor sarà ripagato. Eccolo qui:

“E la regina dette alla luce un figlio che si chiamò Asterione”
                                              Apollodoro, Biblioteca III, 1

So che mi accusano di superbia, e forse di misantropia, o di pazzia. Tali accuse (che punirò al momento giusto) sono ridicole.
È vero che non esco di casa, ma è anche vero che le porte (il cui numero è infinito)* restano aperte giorno e notte agli uomini e agli animali. Entri chi vuole. Non troverà qui lussi donneschi ne’ la splendida pompa dei palazzi, ma la quiete e la solitudine. 
E troverà una casa come non ce n’è altre sulla faccia della terra. (Mente chi afferma che in Egitto ce n’è una simile.) 
Perfino i miei calunniatori ammettono che nella casa non c’è un solo mobile. Un’altra menzogna ridicola è che io, Asterione, sia un prigioniero. Dovrò ripetere che non c’è una porta chiusa, e aggiungere che non c’è una sola serratura? D’altronde, una volta al calare del sole percorsi le strade; e se prima di notte tornai, fu per il timore che m’infondevano i volti della folla, volti scoloriti e spianati, come una mano aperta. Il sole era già tramontato, ma il pianto accorato d’un bambino e le rozze preghiere del gregge dissero che mi avevano riconosciuto. La gente pregava, fuggiva, si prosternava; alcuni si arrampicavano sullo stilobate del tempio delle Fiaccole, altri ammucchiavano pietre. Qualcuno, credo, cercò rifugio nel mare. Non per nulla mia madre fu una regina; non posso confondermi col volgo, anche se la mia modestia lo vuole.

La verità è che sono unico. Non m’interessa ciò che un uomo può trasmettere ad altri uomini; come il filosofo, penso che nulla può essere comunicato attraverso l’arte della scrittura. Le fastidiose e volgari minuzie non hanno ricetto nel mio spirito, che è atto solo al grande; non ho mai potuto ricordare la differenza che distingue una lettera dall’altra. Un’impazienza generosa non ha consentito che imparassi a leggere. A volte me ne dolgo, perché le notti e i giorni sono lunghi.

Certo, non mi mancano distrazioni. Come il montone che s’avventa, corro pei corridoi di pietra fino a cadere al suolo in preda alla vertigine. Mi acquatto all’ombra di una cisterna e all’angolo d’un corridoio e giuoco a rimpiattino. Ci sono terrazze dalle quali mi lascio cadere, finché resto insanguinato. In qualunque momento posso giocare a fare l’addormentato, con gli occhi chiusi e il respiro pesante (a volte m’addormento davvero; a volte, quando riapro gli occhi, il colore del giorno è cambiato). Ma, fra tanti giuochi, preferisco quello di un altro Asterione. Immagino ch’egli venga a farmi visita e che io gli mostri la casa. Con grandi inchini, gli dico: “Adesso torniamo all’angolo di prima,” o: “Adesso sbocchiamo in un altro cortile,” o: “Lo dicevo io che ti sarebbe piaciuto il canale dell’acqua,” oppure: “Ora ti faccio vedere una cisterna che s’è riempita di sabbia,” o anche: “Vedrai come si biforca la cantina.” A volte mi sbaglio, e ci mettiamo a ridere entrambi.

Ma non ho soltanto immaginato giuochi; ho anche meditato sulla casa. Tutte le parti della casa si ripetono, qualunque luogo di essa è un altro luogo. Non ci sono una cisterna, un cortile, una fontana, una stalla; sono infinite le stalle, le fontane, i cortili, le cisterne. La casa è grande come il mondo. Tuttavia, a forza di percorrere cortili con una cisterna e polverosi corridoi di pietra grigia, raggiunsi la strada e vidi il tempio delle Fiaccole e il mare. Non compresi, finché una visione notturna mi rivelò che anche i mari e i templi sono infiniti. Tutto esiste molte volte, infinite volte; soltanto due cose al mondo sembrano esistere una sola volta: in alto, l’intricato sole; in basso, Asterione. Forse fui io a creare le stelle e il sole e questa enorme casa, ma non me ne ricordo.

Ogni nove anni entrano nella casa nove uomini, perché io li liberi da ogni male. Odo i loro passi o la loro voce in fondo ai corridoi di pietra e corro lietamente incontro ad essi. La cerimonia dura pochi minuti. Cadono uno dopo l’altro; senza che io mi macchi le mani di sangue. Dove sono caduti restano, e i cadaveri aiutano a distinguere un corridoio dagli altri. Ignoro chi siano, ma so che uno di essi profetizzò, sul punto di morire, che un giorno sarebbe giunto il mio redentore. Da allora la solitudine non mi duole, perché so che il mio redentore vive e un giorno sorgerà dalla polvere. Se il mio udito potesse percepire tutti i rumori del mondo, io sentirei i suoi passi. Mi portasse a un luogo con meno corridoi e meno porte! Come sarà il mio redentore? Sarà forse un toro con volto d’uomo? O sarà come me?

Il sole della mattina brillò sulla spada di bronzo. Non restava più traccia di sangue.
“Lo crederesti, Arianna?” disse Teseo. “Il Minotauro non s’è quasi difeso.”

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le diecimila cose

Si potrebbe dire che ogni parola è una metafora ormai morta. Il poeta argentino Leopoldo Lugones sosteneva che i poeti usassero però sempre le stesse metafore e che lui stesso avrebbe provato a escogitare una centinaio di nuove metafore sulla Luna nel suo Lunario Sentimental. Poi però ti capita sotto mano una illustrazione, che una amica molto dotta di cultura e arte orientale ha appeso al muro e che illustra alcuni neologismi in cinese.

2014-05-15 12.40.18

 

Mi colpiscono le ultime due: il ricco sfigato che è uno scarafaggio senza ali, e il tamarro che è uno sporco panino al vapore. Non sono un esperto ma credo che in una lingua scritta a ideogrammi le metafore siano davvero continue. Di certo so che i cinesi chiamano il mondo “le diecimila cose” o “i diecimila esseri” -a seconda della fantasia del traduttore-. Mi chiedo se sia davvero possibile pensare per immagini, come suggeriva Luigi Ghirri

Ghirri
Di certo serpeggia il dubbio (o la paura?) che la valanga di immagini che guardiamo e produciamo induca una sostituzione delle cose con la loro immagine. Viene in mente Borges che immaginava un a mappa grande quanto il territorio rappresentato e che per questo diventava inutile: “In quell’Impero, l’Arte della Cartografia raggiunse tale Perfezione che la mappa d’una sola Provincia occupava tutta una Città, e la mappa dell’impero, tutta una Provincia. Col tempo, codeste Mappe Smisurate non soddisfecero e i Collegi dei Cartografi eressero una Mappa dell’Impero, che uguagliava in grandezza l’Impero e coincideva puntualmente con esso. (L’artefice, Jorge Luis Borges, 1960)

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fiat Lux?

Esiste una questione che può sembrarvi o incredibilmente scema o straordinariamente inspiegabile ed è questa: perché il cielo notturno è nero? Se l’universo è infinito e contiene un numero infinito di stelle uniformemente distribuite, dovrebbe essercene uno ovunque guardiamo, e il cielo dovrebbe essere luminoso così di notte come di giorno. A quanto pare ci sono molte persone che si sono poste questa questione, tipo Keplero o Halley  -quello della cometa-

Si chiama paradosso di Olbers e non esiste una vera e propria soluzione, solo delle ipotesi -a partire da alcuni assodati presupposti cosmologici-

Tra l’altro se state pensando che il colore dell’universo sia il nero -che infatti sta bene su tutto- vi sbagliate, in realtà è un “salvia” un po’ spento… Lo dicono gli astronomi della Johns Hopkins University. Verificate qui

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